Racconti della seconda guerra mondiale

Il 9 e 10 luglio 1943 Caltagirone fu duramente bombardata da aerei americani Wellington.

Il velo della quotidianità sociale fu squarciato da una pioggia di bombe che, come un fulmine a ciel sereno, caddero sull’abitato, deturpando le geometrie dei carruggi, i vicoli stretti.

L’evento improvviso lasciò esterrefatti gli abitanti che, a differenza di molti altri Siciliani, se ne stavano tranquilli perché da tempo correva voce che Caltagirone, città di don Luigi Sturzo, esule in America, non sarebbe mai stata bombardata. Si era ormai consolidata la speranza che il fondatore del Partito Popolare, antifascista, avesse la capacità di intercedere presso il governo americano, come si fa con Dio e con i Santi. In tutti c’era la certezza che la morte non sarebbe potuta arrivare là dove la Chiesa e Sturzo avevano eretto uno scudo a difesa.

Fino ad allora i Calatini erano quindi abituati al movimento delle truppe, ai carri armati, alle parate, alle manifestazioni, alle sirene, ma non all’idea di un bombardamento. Eppure, alcuni mesi prima, per diverse notti, gli aerei ricognitori alleati avevano mandato segnali premonitori di un pericolo imminente. Sorvolando la città, avevano lanciato razzi al magnesio per illuminare a giorno i siti militari e, giorni prima del bombardamento, avevano lanciato anche volantini per invitare la popolazione ad evacuare la città. La gente veniva rassicurata che «essi» arrivavano come «liberatori» e che non c’era dunque da avere paura. I volantini vennero però ignorati e solo pochi giunsero in città. Molti caddero in zona Saracena e nelle altre campagne, ma i contadini che li raccolsero si guardarono bene dal divulgare notizie che, in quel clima, potevano apparire false, tendenziose e punibili perfino con l’arresto.

Nei mesi e nelle settimane precedenti, diversi erano stati gli scontri tra aerei delle due parti, e alcuni velivoli abbattuti erano precipitati. Un aereo cadde dietro S. Giorgio, un B-25 cadde in una vallata di Croce Vicario e si disintegrò. Un aereo tedesco Cicogna, a due posti, cadde esattamente nella villa La Rosa-Patti, all’angolo di contrada Fisicara. «La carlinga, tagliata a strisce, venne riutilizzata dagli artigiani calatini per fare accendini, ma mi colpì vedere sparsi a terra tra i rottami, tacchi di scarpe da donna e capelli lunghi bruciati. Dopo tre ore, arrivò l’esercito italiano», racconta un testimone. Un episodio simile avvenne a Belpasso dove i cittadini si impossessarono di molte parte meccaniche di un carro armato Tiger abbandonato e bruciato.

Due giorni prima dei bombardamenti, il 7 luglio 1943, il commissario prefettizio emanò con un manifesto una ordinanza sulle misure di sicurezza e sugli speciali provvedimenti necessari ai fini della protezione antiaerea.

Proprio la mattina del 9 luglio era stato abbattuto dalla contraerea un aereo nemico, che, in fiamme, era caduto in contrada S. Bartolomeo: «C’erano rottami sparsi ovunque» e molta gente si chiedeva, si informava come fosse avvenuto e se ci fossero morti o sopravvissuti, ma ci venivano date vaghe risposte e non ci era permesso di avvicinarci perché la polizia impediva a tutti di oltrepassare il cerchio limite».

Nonostante questi segni premonitori, al momento dei bombardamenti, intorno alle 18,00 di quel 9 luglio, la piazza era brulicante di gente. Nessuno poteva aspettarsi quello che sarebbe successo di lì a poco. Incuranti dei vari ammonimenti, alcuni vivevano un tranquillo pomeriggio estivo, altri si accingevano a partecipare alla rivista Fior di Loto, messa in scena dagli universitari al teatro Politeama. All’improvviso, con un rombo assordante e minaccioso, molti aerei Wellington sfrecciarono nel cielo, vomitando a pioggia bombe sull’abitato. «Si ha subito la netta sensazione che il nemico ha il dominio del cielo».

Tutta la città fu colpita violentemente.

Molte bombe caddero in via Vittorio Emanuele, in via Due luglio, nella zona ex Matrice, a S. Giorgio, ai Cappuccini, a S. Pietro, in Piazza Umberto, in via Degli Studi, nella zona Acquanuova, a S. Luigi, nel quartiere Ponte, al viale Principessa Maria, a S. Giacomo, in piazza Innocenzo Marcinò e nelle zone vicine.

«Aerei, aerei, buttano cose lucide», Non capivamo cosa potessero essere e ci mettemmo al balcone a guardare verso il cielo, mentre sulla strada passavano camion carichi di feriti, che andavano verso l’ospedale militare di S. Orsola».

«Passeggiavamo davanti al Politeama, nell’attesa di entrare a teatro quando, all’improvviso, un rombo assordante ci atterrì. Tutto avvenne con una tale e inaspettata fulmineità, da lasciarci attoniti. Sotto i nostri occhi esterrefatti uno stormo di aerei a due code sorvolava minaccioso la città. Il tempo di dire: mamma mia gli aerei, mamma mia le bombe, che si scatenò il finimondo. I fragori degli scoppi si sovrapponevano ai sibili delle bombe e da quel momento le azioni si susseguirono senza un nesso logico. Si scappava in cerca di salvezza».

«Mentre correvo per le stanze vedevo cadere dagli aerei le bombe che mi sembravano biscotti, tintinnarono tutti i vetri delle finestre e qualcuno si ruppe».

«Io guardavo in alto e con fierezza sfidavo i nemici che arrivavano con gli aerei. Non ebbi paura, anzi, mentre gli altri fuggivano terrorizzati, io, da giovane ardito e incosciente, rimasi fermo ad affrontare il pericolo. Avevo 16 anni».

Con i bombardamenti, i Calatini sperimentarono la guerra. Sebbene i proclami e gli insegnanti nelle scuole avessero già da tempo dettato le regole di comportamento in caso di bombardamento, all’evento improvviso saltarono tutti gli accorgimenti.

Non esistettero più punti di riferimento istituzionali e le misure previste si rivelarono inefficaci e ridicole.

Come ci si poteva salvare dalle bombe infilandosi sotto il letto o sotto le travi di legno o peggio ancora dentro i catoj, gli ambienti posti sotto il livello della strada)?

I Calatini subirono la morte dal cielo e fu un’esperienza di morte nuova.

L’esperienza di morte violenta e collettiva sino ad allora conosciuta era quella provocata dal terremoto in cui la natura con la sua forza incontrollabile, facendo tremare la terra con i suoi movimenti oscillatori e sussultori, distrugge la vita. Il terremoto viene visto come manifestazione nefasta di madre natura e della collera divina che si abbatte su una collettività rea di qualche colpa o peccato. Le bombe invece sono umane; non hanno nulla di divino e colpiscono per uccidere. Ma per quale colpa? Per quale «peccato»? L’unico peccato che nel 1943 si doveva espiare e che diventava giustificazione ai bombardamenti era continuamente ripetuto nei volantini: «Le bombe colpiscono i fascisti e i Tedeschi».

Di conseguenza, il «perché proprio noi?», che dapprima diventava domanda insistente, si trasformò in rassegnazione. Si accettarono i bombardamenti come necessari e gli Alleati, che non si potevano più distruggere, da acerrimi nemici, diventarono gli amici che liberavano. Come nel sacrificio, che i popoli facevano agli dèi, la morte era mezzo espiatorio, così qui essa diventava sacrificio necessario ed estremo per placare l’ira benevola degli Americani. Per questo motivo i testimoni raccontano, quasi sempre, di Alleati generosi e disponibili mentre, definiscono i bombardamenti come errore fatale dei bombardieri che, per colpire i Tedeschi, furono costretti a uccidere gli Italiani che inconsapevolmente si trovavano nelle proprie case e catoj

Da distaccati spettatori di un evento, che già da alcuni mesi distruggeva le altre città della Sicilia, i Calatini si trasformarono in inermi attori passivi. Al sibilo e allo scoppio delle bombe, all’urlo delle sirene, il terrore si propagò con una velocità vertiginosa. Sorpresi e atterriti, si riversarono per le strade, carichi del necessario, ma anche del superfluo e, come una fiumana scomposta e tumultuosa, sotto la spinta emotiva della paura, correvano alla ricerca di altri ripari o spazi aperti. Le strade e i carruggi furono subito ingorgati di persone in fuga impaurite e terrorizzate, mentre i camion militari erano carichi di feriti, avvolti in bende, che venivano traspor-tati all’ospedale militare situato nelle scuole di S. Orsola,

«Era gente inebetita con i volti e i capelli bianchi per la polvere dei calcinacci. Persone prima dai capelli neri e castani, di colpo erano diventate canute e vecchie di mille anni. Caricavano quanto avevano potuto afferrare nella fretta, cuscini, coperte, coffe (sacchi colmi di masserizie e di prodotti di prima necessità».

La città si spostò fisicamente verso le campagne.

Le contrade Regalsemi, Gesalmonte, Pietra Rossa, Racineci, Saracena, Croce vicario, la Molona, la Montagna, le cui grotte naturali un tempo erano state abitate dai Siculi, vennero colonizzate dai Calatini che, sfollati dalle loro case, occuparono masserie, stalle, rifugi o ricoveri di fortuna come anche grosse buche scavate nel terreno. Si tornava indietro di millenni, si costruivano tende di fortuna; fave e altri legumi divennero l’unico sostentamento, terrore e solidarietà accompagnarono quei momenti interminabili.

Le famiglie della borghesia raggiunsero i loro villini di campagna situati nelle contrade Porto Salvo, Fisicara, S. Maria di Gesù e Boschigliolo.

La maggior parte della popolazione trovò invece rifugio in luoghi di fortuna e perfino nella galleria ferroviaria del Salvatorello, attraversata dal treno che da Caltagirone andava a Piazza Armerina. Raccontano che dentro la galleria ci fosse una «popolazione» così numerosa che si era costretti a stare stipati come sardine. Quando passava il treno, bisognava addossarsi al muro per non essere schiacciati e si correva il rischio di rimanere soffocati dal fumo.

«Sotto le gallerie rimanemmo almeno sette giorni. Notte e giorno stavamo distesi a terra e, quando passavano i treni, dovevamo tirare su le gambette sporche».

Molti popolani si rifugiarono nelle grotte naturali preistoriche della Montagna. I luoghi di fortuna divennero stabili e inusuali abitazioni nelle quali ciascuno, accomunato agli altri dalla precarietà, dalla solidarietà e dalla sofferenza, cercava di rendersi utile in ogni modo.

Mentre gli uomini facevano sortite in città per prendere cibo e indumenti, le donne si aiutavano vicendevolmente nella cura dei bambini. Si soffriva la fame e ogni tanto qualcuno portava provviste che venivano premurosamente divise tra tutti.

Giorno 10 ci fu un secondo bombardamento, gli aerei sganciarono bombe sulla città quasi deserta e non si ebbero molte vittime. Il giorno dopo agli occhi di quelli che ritornavano dalle campagne e dai rifugi, si presentò uno spettacolo apocalittico. A ogni crocevia, a ogni traversa, case abbattute, squarciate, danneggiate, crateri per le strade, mucchi di macerie. Morti, feriti e lamenti.

I danni bellici furono devastanti e tante furono le bombe inesplose che nei mesi seguenti causarono la morte di innumerevoli abitanti, tra cui molti ragazzi, che, incuriositi dal luccichio del metallo, raccoglievano per le strade e nelle campagne il materiale ferroso.

Molti furono i danni inferti dai bombardamenti alle case e alle persone e le strade erano bloccate dalle macerie. Numerosi palazzi caddero in via Vittorio Emanuele, in via Principe Amedeo, al Carmine, sulla Scala Matrice, alla Discesa del Collegio, in via Due luglio, alla discesa di S. Agata, in piazza S. Francesco d’Assisi e in via Roma. Tanti morti furono identificati solo dopo alcuni giorni. Centinaia di bombe caddero nel bosco di Santo Pietro e di Piano S. Paolo, provocando numerosi incendi nei sughereti. Le maggiori perdite di vite umane furono sicuramente quelle di Piazza Umberto, dove i cadaveri rimasero a vista ad ammorbare l’aria sino all’ingresso degli Alleati.

Lo scenario che traspare dalle cronache e dalle testimonianze è davvero macabro.

I corpi senza vita vennero, nei giorni seguenti, pian piano raccolti e bruciati presso il cimitero in una fossa comune. Si stima che siano stati circa 300 le vittime del bombardamento e sarebbero state molte di più se l’evento si fosse verificato durante l’inverno. Infatti, in estate, i Calatini, come tutti i Siciliani, si trovavano per fortuna quasi tutti all’aperto in campagna, o per la villeggiatura, o per la mietitura del grano e di altri cereali.

Il vescovo, rimasto miracolosamente illeso, dovette sfollare e fu ospitato presso il «Ricovero dei Vecchi di S. Maria di Gesù». Sull’istituto S. Secondo, caddero 12 bombe che distrussero tutti i locali, tranne quello dove stava esposto un presepe permanente. La bomba, caduta ai piedi del Bambinello, non esplose. Tutti i 100 bambini e le suore, che vi si erano rifugiati, poterono uscire salvi e illesi.

Mentre gli aerei bombardavano dall’alto, le contraeree tedesche, posizionate in vari punti strategici della città, sparavano all’impazzata.

I giorni che seguirono ai bombardamenti furono giorni turbinosi, caratterizzati da disordine e da atti di vandalismo e di sciacallaggio. Nella ritirata i Tedeschi bruciarono i capannoni militari o meglio i magazzini di rifornimento, che si trovavano in via Madonna della Via e a S. Bartolomeo e che erano pieni di generi alimentari di varia natura. Inoltre, per aiutare i cittadini (questo lo hanno affermato in molti), scardinavano con i carri armati le saracinesche dei negozi permettendo così alla gente di rifornirsi di varie mercanzie.

Quando si sparse la voce che i Tedeschi e gli Italiani sbandati stavano per ritirarsi, poiché la fame si faceva sentire, molti Calatini salirono dalle campagne in città per scassinare i negozi.

«La gente correva come se un congegno di controllo si fosse rotto e i meccanismi motori si fossero liberati»

Furono utilizza-ti tutti i possibili mezzi di trasporto: i carretti, i muli, le carriole, le biciclette e le scale di legno su cui venivano posizionati i sacchi di farina, di legumi, di riso, di pasta, di zucchero a pietra e di scatolette di «salsina» da portare alle famiglie che, accomunate dallo stesso destino e terrore, attendevano con trepidazione la venuta degli uomini carichi di generi alimentari.

«Un gruppo di uomini prese una gigantesca ruota di parmigiano. Essendo troppo grande decisero di spingerla nella discesa di via Roma. Appena incominciò a muoversi, non si riuscì più a controllarla. Essendo grassa, non faceva attrito, anzi scivolava. La guidarono a spintoni finché, dopo il Monumento dei Caduti, si mise a correre da sola e si fermò solo quando andò a infrangersi in mille pezzi nel cantone della casa Compagno. Tutti noi che la rincorrevamo ce ne impossessammo con avidità. Chi aveva avuto mai tanta abbondanza di un prodotto così pregiato?».

Erano giorni di attesa, non si sapeva nulla e quando arrivavano le notizie, queste erano storpiate dal passaparola di bocca in bocca. Si diceva che gli Americani fossero già sbarcati a Gela, a Siracusa, a Catania. «Il nemico avanzava e i nostri soldati si ritiravano, anzi scappavano davanti agli Alleati» si diceva. Si aspettava con attesa sfibrante; il timore di nuove e violente incursioni si diffondeva, alimentato da voci più o meno tendenziose di bombardamenti su altri centri siciliani.

La città era abbandonata e vuota. In un silenzio spettrale si attendevano eventi incerti.

Nelle campagne si assisteva al passaggio dei soldati italiani che, laceri e provati dalle battaglie, fuggivano raccontando episodi infernali degli eserciti anglo americani che, fieri e potenti, entravano da vincitori. Molti soldati italiani sbandati furono rifocillati e forniti di vestiti civili per sfuggire alla cattura.

Sotto le macerie furono trovati anche corpi di sfollati che si trovavano a Caltagirone dopo essere scappati dalle grandi città, bombardate già prima dell’invasione. Provenivano da Palermo, da Catania, da Agrigento, dall’Africa e si erano stabiliti nei quartieri di Caltagirone, città considerata più sicura. Lo sfascio e la confusione erano enormi.

La notizia dello sbarco correva con la velocità del passaparola, e veniva confermata dal passaggio di truppe concitate che convogliavano verso le zone di sbarco. L’attesa snervante che aveva logorato i Siciliani era finita: il nemico era arrivato, adesso bisognava ricacciarlo in mare. Si attendeva, con animi discordanti. C’era chi, con fiducia, riponeva nell’arrivo degli amici Americani l’unica salvezza e chi invece, con paura, sperava in un ripiegamento dei nemici Alleati e in una vittoria dell’Asse su quel bagnasciuga tanto decantato da Mussolini. Si aspettava che gli eventi prendessero il sopravvento. La popolazione civile non poteva fare altro che mettersi in salvo, allontanarsi sempre più dalle bombe e dalle zone coinvolte nel-le operazioni militari.

Giorni drammatici, i cui ricordi sono ancora vivi nelle nostre menti e nei nostri cuori.

Cari ragazzi, ci auguriamo che questi giorni non tornino mai più. Solo chi ha vissuto la barbarie di una guerra può capire e pregare che non si ripetano più simili disastri.